Non dev’essere facile essere Mario Mandžukić. La vita non è stata generosa con lui, costringendolo ad abbandonare la sua terra natia, la Croazia, a soli sei anni, per fuggire dai massacri della guerra d’indipendenza deflagrata nel suo Paese. Tuttavia, già da bambino l’ariete di Slavonski Brod era abituato ad affrontare le difficoltà a muso duro, facendo affidamento su un carattere d’acciaio.
Sguardo fiero e broncio costante: così è nata la figura del bomber che ora delizia a suon di reti e prestazioni maiuscole la platea di palati fini ed esigenti dello “Juventus Stadium”. Perché, in tutt’onestà, non è facile fare breccia nel cuore del pubblico di fede bianconera: non basta un cognome blasonato, non basta un passato lastricato di successi. Di fronte alla prima prestazione non all’altezza, la tifoseria sabauda comincia a rumoreggiare (chiedere a Hernanes per conferma). Colpa (o merito, a seconda dei punti di vista) di una mentalità tanto esigente quanto vincente, come testimonia il palmarès della società di corso Galileo Ferraris.
Qualsiasi altro attaccante nell’estate 2015, quella dello sbarco di Mandžukić all’ombra della Mole Antonelliana, avrebbe rischiato di subire la pressione psicologica dettata dalla consapevolezza di essere stato acquistato per raccogliere l’eredità di un certo Carlos Tévez. Con lui è arrivato anche Paulo Dybala, è vero, ma all’epoca nessuno si aspettava che il talento di Laguna Larga sarebbe stato in grado di adattarsi alla perfezione ai meccanismi tattici di una delle compagini più blasonate dell’intero orbe terracqueo. Ergo, tutte le aspettative gravavano sul bomber ex Bayern Monaco e Atlético Madrid, noto a livello internazionale e artefice del Triplete centrato dai bavaresi nella stagione 2012/2013.
Sin dalla prima partita ufficiale disputata con la casacca zebrata numero 17, quella che fu di David Trezeguet, il centravanti balcanico è sceso in campo con il carisma di un veterano, timbrando il cartellino e regalando alla Juventus la settima Supercoppa Italiana della sua storia.
È un tipo di poche parole, Mario. I leader come lui comunicano con gli occhi e prediligono i fatti concreti alle suggestioni appena mormorate. Mandžukić ha fatto del pragmatismo il leitmotiv della sua carriera e dell’abnegazione la sua filosofia di vita, collocando lo spirito di sacrificio al primo posto della sua graduatoria morale. Non si è perso d’animo nemmeno in estate, quando il calciomercato gli ha “donato” un compagno di reparto del calibro di Gonzalo Higuaín, l’uomo capace di ritoccare verso l’alto il primato di reti siglate in un singolo campionato di Serie A.
Relegato tra le riserve ad agosto, il croato ha saputo ugualmente mettersi in luce negli allenamenti e negli scampoli di gara offertigli da Allegri, ritagliandosi un ruolo da coprotagonista e ritornando ad essere, partita dopo partita, imprescindibile per gli schemi juventini, complice anche la metamorfosi tattica varata da Massimiliano Allegri a gennaio.
La prestazione di ieri sera contro il Porto, al pari di tante altre che si sono succedute in rapida sequenza nell’ultimo periodo, rappresenta la summa del suo carattere: combattivo, affamato, mai domo. Ogni pallone perso va recuperato, ogni avversario in fuga va rimontato. Ogni conclusione verso la propria porta va sventata, mettendoci il corpo e, se è il caso, anche la testa. Ogni contrasto deve essere vinto, a costo di rimediare una tacchettata sul ginocchio.
Sì, Mario ha le stimmate del guerriero e possiede la tempra e le virtù proprie dei più grandi fuoriclasse. Si tratta di caratteristiche congenite, impossibili da trapiantare nel proprio acido desossiribonucleico. Ecco perché non dev’essere facile essere Mario Mandžukić. Eppure a lui riesce benissimo.